La nonviolenza in un mondo violento, ha ancora un senso?

Sì, ha ancora un senso e ne abbiamo più che mai bisogno. Per affrontare i conflitti e costruire una pace che non sia solo assenza di guerra, sulle orme di Gandhi, ma anche di don Bosco. Intervista a Peter Gonsalves

Pace, la parola più invocata nei discorsi politici e nelle preghiere religiose. Nonviolenza, un sogno tanto semplice quanto, oggi, sempre più prezioso, in un mondo che spesso sembra andare nella direzione opposta, alimentando lo scetticismo sulla sua reale possibilità.

«Solo perché esiste violenza in alcune parti del mondo, la nonviolenza deve perdere significato? Dovremmo forse smettere di parlarne?». A porci questa domanda è il professor Peter Gonsalves, salesiano e docente nella Facoltà di Scienze della Comunicazione sociale (FSC) dell’Università Salesiana. Il suo studio originale sulla cultura della pace in San Giovanni Bosco propone una riflessione profonda, su come valori come la nonviolenza possano trovare ancora oggi voce e spazio, offrendoci nuove chiavi di lettura e ispirazione.

Nel suo libro “La cultura della pace di Don Bosco”, lei fa riferimento alla definizione di “pace” proposta dal sociologo Johan Galtung. Che cosa è la pace?

«Spesso crediamo che la pace sia l’assenza di guerra e conflitto, oppure la serenità che proviamo quando meditiamo o pratichiamo la consapevolezza. O ancora, pensiamo che tutto ciò che è l’opposto della guerra sia pace. Johan Galtung è considerato il primo ad aver elaborato una teoria sociologica della pace più ampia. Affronta il tema della pace cercando di comprendere il concetto di “violenza”. Esistono tre forme di violenza: diretta, culturale e strutturale. Cominciamo con quest’ultima: la violenza strutturale è costituita da leggi che violano i diritti degli esseri umani, come l’apartheid, la negazione del diritto all’istruzione, del diritto di voto, del diritto al rispetto e all’essere rispettati, eccetera. La violenza culturale attacca l’identità delle persone: il modo in cui si vestono, la religione scelta, le battute che facciamo su chi non ci piace o ignoriamo. Infine, la violenza diretta è il comportamento palese, che spesso è il risultato della violenza strutturale e culturale. Potrebbe trattarsi di omicidi, stupri, incendi di autobus, calunnie, bullismo, insulti.

Dopo aver studiato la violenza, Galtung si dedica alla “pace”. Anche la pace, secondo lui, si manifesta in tre forme, che corrispondono a quelle della violenza descritte sopra. La prima è il mantenimento della pace, che garantisce che le parti in conflitto non si impegnino in violenza diretta. La seconda è il fare la pace, anche chiamato risoluzione dei conflitti. La terza è la costruzione della pace, ovvero atti concreti di promozione della pace come l’educazione alla pace, il rispetto dei diritti umani, l’empatia, la compassione, la preghiera».

Peter Gonsalves Don Bosco Pace

Quindi la pace non è solo assenza di guerra…

«La concezione di pace di Galtung è l’esatto opposto della violenza. Quindi, se da un lato la pace è assenza di guerra, violenza, conflitto e prevenzione del danno, dall’altro può anche essere descritta come la presenza di tolleranza, gentilezza, armonia, perdono, libertà, uguaglianza, istruzione, assistenza sanitaria, sviluppo umano, sensibilità ecologica e così via. Di conseguenza, si distinguono una pace negativa e una pace positiva. Spero di non avervi confusi. L’analisi sociologica della pace di Galtung è alla base di numerose ricerche condotte dall’ONU e da istituzioni internazionali e nazionali che lavorano per lo sviluppo sostenibile e i diritti umani».

Come vivere la non violenza oggi, in un’epoca segnata da conflitti globali, disuguaglianze e tensioni sociali?

«Dopo la Seconda Guerra Mondiale, furono creati sistemi e istituite istituzioni per garantire che una Terza Guerra Mondiale non scoppiasse mai. Basti pensare ad alcune delle iniziative intraprese per salvaguardare il mondo da un’altra guerra: nel 1948, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani fissò obiettivi per uno sviluppo umano a 360 gradi per tutti i popoli. Nacquero così agenzie specializzate, come l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU, 1945), l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO, 1945), la Corte Internazionale di Giustizia (CIG, 1945) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 1948). L’iniziativa globale più recente è stata la Conferenza sui Cambiamenti Climatici (COP21, 2015) di Parigi. Inoltre, a partire dal 1947, molti Paesi sotto la morsa del colonialismo furono liberati, grazie alla lotta nonviolenta del Mahatma Gandhi per l’indipendenza dell’India, che diede avvio a questo tipo di resistenza. Detto questo, ammetto che la situazione odierna è peggiorata, principalmente a causa di tre uomini: due che detengono il potere in guerre incessanti, al costo di migliaia di vite umane e miliardi di dollari sprecati in arsenali. Il terzo uomo esige una guerra commerciale sui dazi doganali, a scapito dell’isolamento del proprio Paese dal resto del mondo. Si è persino ritirato dal principale organismo delle Nazioni Unite per i diritti umani, che finanzia i rifugiati più vulnerabili, nonché dall’accordo di cooperazione globale su salute e cambiamenti climatici».

In una situazione in cui c’è un Paese invaso (l’Ucraina) e uno invasore (la Russia), ha ancora senso parlare di non violenza?

«Solo perché c’è violenza in una parte del mondo, la nonviolenza dovrebbe perdere senso? Dovremmo forse smettere di parlarne? Al contrario, i discorsi su pace e nonviolenza devono essere diffusi ancora di più. Altrimenti sarebbe come “buttare via il bambino con l’acqua sporca” e saremmo condannati a nuova violenza. Gandhi lo disse meglio: «Occhio per occhio renderà il mondo cieco». Se impariamo ad amare il prossimo, a provare empatia per chi è nel bisogno, a perdonare chi ci ha fatto del male, a promuovere l’educazione alla pace nelle nostre scuole, allora dobbiamo insistere nell’insegnare la pace. Solo perché le persone non amano il prossimo, questo significa che il principio chiave di Gesù non meriti di essere praticato? La pace, nelle sue diverse forme, è l’antidoto a ogni forma di violenza».

Se una persona crede profondamente nella non violenza, cosa può fare concretamente quando un conflitto è già scoppiato, come nel caso della crisi a Gaza? In che modo i principi della non violenza possono contribuire a trovare soluzioni in simili contesti?

«Di fronte a personaggi potenti che hanno già iniziato le guerre, i cittadini comuni non possono fare nulla, se non tendere la mano e aiutare le vittime, come fece il Buon Samaritano. Se, al contrario, il conflitto sta per iniziare, devono intervenire strategie non violente prima che il conflitto si trasformi in una guerra vera e propria. Alcuni tentativi di prevenire i conflitti includono il mantenimento della pace, la risoluzione dei conflitti, il dialogo, l’accordo per il mantenimento della pace, la decisione che ogni contendente in un conflitto riceva una giusta quota delle proprie richieste, la sperimentazione di modi creativi per unire le persone nel conflitto o il sostegno a una causa per la pace. Se le grandi potenze si rifiutano di cedere, gli attivisti per la pace ancora determinati a ottenere giustizia dovranno fare enormi sacrifici, forse persino mettendo a repentaglio il proprio benessere o la propria vita. Vale la pena studiare gli esempi di questi eroi – ed è ciò che cerco di fare nel mio corso di Educazione alla Pace».

Viviamo in un contesto globale in cui, anche senza l’uso diretto delle armi, i leader politici — come il Presidente degli Stati Uniti — adottano spesso approcci aggressivi per affrontare le crisi. Possiamo definire violento Trump? La non violenza si applica anche nei Paesi che teoricamente non sono in guerra?

«Un Paese può sembrare apparentemente tranquillo e in pace. Ma pregiudizi e stereotipi spesso covano sotto la superficie della nostra vita quotidiana e delle relazioni che intrecciamo. La violenza culturale, come descritta da Galtung, è proprio ciò che alimenta animosità e conflitti. E questo accade persino all’interno delle nostre comunità religiose. Ciò che conta è quanto riusciamo a impedire che i sentimenti negativi crescano, e dove potrebbero condurci se non li riconosciamo e affrontiamo. Inoltre, quando le persone in conflitto si trovano in una condizione di disuguaglianza, i più forti tendono a dare per scontata la presenza — e il valore — dei più deboli. Ed è proprio da lì che nasce l’oppressione. È così che inizia il bullismo: quando una persona, o perfino una nazione, sfrutta il proprio potere a proprio vantaggio».

In questo scenario, come può la non violenza essere effettivamente integrata nei programmi scolastici e nelle politiche educative?

«Questo scenario di guerre, sebbene rappresenti una realtà infelice e tragica per chi ne è direttamente colpito, non deve dissuadere gli altri dall’impegnarsi nella costruzione della pace per le generazioni future. Quando Maria Montessori, la celebre pedagogista italiana, incontrò il Mahatma Gandhi a Roma nel 1931, gli chiese come porre fine alle guerre. Gandhi rispose: «Se vogliamo insegnare la vera pace in questo mondo, e se vogliamo condurre una vera guerra contro la guerra, dovremo iniziare dai bambini». Esistono molte idee e risorse sulla pace che possono aiutare gli educatori a integrare questo tema nei curricula scolastici. Tuttavia, l’educazione deve cominciare gradualmente: dalla consapevolezza emotiva e dalla cooperazione nei primi anni di vita (dai 4 ai 9 anni), al pensiero critico e all’impegno sociale nell’adolescenza (dai 10 ai 16 anni), per culminare in un percorso di educazione alla pace riflessivo, filosofico e orientato all’azione nella tarda adolescenza (17-19 anni). Nel 2003 ho avuto la fortuna di avviare la realizzazione di un manuale di formazione per insegnanti. Si intitolava “Exercises in Peace Education”. È stato aggiornato nel 2019, in occasione del 150° anniversario della nascita di Gandhi. Attualmente viene utilizzato nelle scuole della provincia di Mumbai, nell’ambito del corso di Scienze Morali».

Don Bosco
Nell’insegnamento di Don Bosco troviamo tante forme di pace, come la pace personale, la pace educativa, la pace organizzativa.

Nel suo libro emerge che Don Bosco non vedeva la pace come un concetto astratto, ma come una pratica quotidiana. Quali principi della sua pedagogia ritiene siano più rilevanti oggi per educare i giovani alla non violenza?

«Permettetemi di raccontarvi brevemente la mia storia. La mia tesi di dottorato verteva su Gandhi e su come abbia utilizzato l’abbigliamento come catalizzatore per unire una popolazione vasta e diversificata, e per liberare l’India dal dominio britannico. Questo studio ha portato alla pubblicazione di due libri: “Clothing for Liberation: A Communication Analysis of Gandhi’s Swadeshi Revolution” (Sage, 2010) e “Khadi: Gandhi’s Mega Symbol of Subversion” (Sage, 2012). Dai titoli potete intuire il mio amore per tre discipline: comunicazione, educazione e pace. Dopo aver completato questi volumi, ho deciso di analizzare più da vicino Don Bosco, per valutarne il “quoziente di pace”. Il frutto di sei anni di ricerca è stato un libro di 400 pagine intitolato “Don Bosco’s Peace Culture” (LAS, 2022). Vi invito a leggerlo per giungere, attraverso una riflessione personale, alle conclusioni e ai principi che forse state cercando.

Riunendo la storia e la cultura salesiana, credo di aver posto le basi per una nuova prospettiva sul nostro fondatore. I dati raccolti non ruotano solo attorno ai principi tradizionali (come ragione, religione e amorevolezza), ma si estendono anche ad atteggiamenti, valori, iniziative, relazioni e azioni di pace. In generale, la prima parte del libro esamina il comportamento di Don Bosco in situazioni di conflitto, crisi e sfida. La seconda parte è uno studio quasi empirico, integrato con le mie riflessioni sugli aspetti “espressivi” del sistema preventivo — concetto che ho proposto nel 2009. La terza parte esplora i valori sociologici della pace nella vita quotidiana del Santo. La conclusione riunisce diversi aspetti della pace e della nonviolenza, classificati come: pace personale, pace educativa, pace organizzativa e ethos cattolico di Don Bosco. Il “non-con-le-percosse” (cioè la nonviolenza) presente nel sogno dei nove anni è uno dei pilastri fondamentali dell’educazione salesiana. Tuttavia, questo libro intende stimolarci ad andare oltre: a promuovere attivamente la pace, affinché ogni scuola salesiana educhi i propri studenti alla costruzione di un mondo nonviolento e compassionevole. Avremo successo solo se potremo contare su dirigenti scolastici dedicati e insegnanti creativi, capaci di entusiasmare i propri studenti nel cammino del peacekeeping, peacemaking e peacebuilding».

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