Il giornalismo è un atto di resistenza e di cura. La testimonianza di Susan Dabbous

Nel 2013 Susan Dabbous si trovava in Siria per raccontare le storie dei civili colpiti dalla guerra, quando fu sequestrata da un gruppo armato. È stata un'occasione per ripensare il suo lavoro. Oggi ai giovani giornalisti dice: non abbiate paura di fare domande

Susan Dabbous è una giornalista italo-siriana. Nel 2013, mentre si trovava con altri giornalisti in una chiesa cristiana dissacrata nella regione di Idlib per intervistare un frate, fu sequestrata da un gruppo armato islamista: «Ci hanno detto: “Che cosa state facendo? Non avete il nostro permesso. Ora venite con noi”». Quel gruppo era Jabhat al-Nusra, un gruppo jihadista armato, affiliato ad al-Qaeda. «Non avevo capito che ci stavano rapendo. Pensavo fosse un controllo, poi ho visto che erano mascherati, armati, e ci hanno portati via». Seguirono undici giorni di prigionia.

In quei giorni, Susan ha vissuto il terrore, ma anche uno straordinario bisogno di osservare e comprendere. «Pensavo che saremmo morti. Mi sono detta: ecco, questo è il momento in cui finisce la mia vita. Però non volevo morire senza capire chi fossero, dove fossimo».

«In quelle condizioni il tempo assume un valore diverso rispetto agli 11 giorni di una vita ordinaria», racconta. Durante quei giorni, Susan trovò conforto nei piccoli dettagli: «Ricordo un raggio di luce che filtrava attraverso le serrande chiusissime, gli uccelli che cinguettavano, le campane. Mentre la tua vita è bloccata, fuori il ciclo della natura continua.»

In quei giorni di prigionia, Susan ha vissuto l’angoscia e l’incertezza, ma ha scelto — istintivamente — di rimanere giornalista. Di continuare a guardare, ad ascoltare, a raccogliere informazioni. Anche nella paura, è rimasta testimone.

«La cosa più difficile è stata affrontare il ritorno. I miei amici erano contenti, ma io non ero più la stessa. È lì che ho deciso di scrivere». Dal trauma è nato un libro: Come vuoi morire? (Ed. Castelvecchi, 2023), un racconto diretto e profondo, dove Susan dà voce non solo a ciò che ha vissuto, ma anche alle domande che quel sequestro ha aperto: sul giornalismo, sulla fede, sull’identità, sul valore della libertà.

Susan Dabbous, Come vuoi morire?
Il libro di Susan Dabbous, pubblicato nel 2013

In questa intervista, dodici anni dopo, Susan Dabbous ci aiuta a capire cosa significhi raccontare storie in zone di guerra. Ma ci parla anche di resilienza, memoria e responsabilità. Un dialogo per chi vuole conoscere il senso più profondo del giornalismo — e il coraggio di non smettere di guardare, anche quando fa male.

Cronaca da un mondo stanco

Parlare oggi della Siria significa fare i conti con un Paese ancora lacerato, ma anche con nuove energie. Al Festival del Giornalismo di Perugia, Susan ha incontrato giovani giornalisti siriani, dentro e fuori dal Paese. Persone che, nonostante tutto, portano avanti il desiderio di cambiamento. Un ottimismo fragile, certo, ma reale. Più forte, forse, proprio perché nato da chi ha conosciuto la guerra da vicino.

Secondo Susan, oggi il mondo dell’informazione è cambiato molto. «Negli anni della guerra in Siria c’era tantissima copertura mediatica. Ma oggi, anche se le notizie continuano a esserci, le reazioni non arrivano più come una volta.» La gente si abitua, dice, perché le crisi sono ovunque, continue, tutte insieme. «C’è una sovraesposizione. Ma non è colpa del pubblico: è colpa della moltiplicazione delle guerre, della corruzione, dell’instabilità globale.» Susan, però, non ha perso fiducia: «Ci sarà sempre un giornalista sul posto. Sempre qualcuno pronto a raccontare.»

Lo sguardo che cambia

Diventare madre ha trasformato il modo in cui guarda il mondo. La vulnerabilità è aumentata, così come la cautela. Ma è aumentata anche l’empatia. «Quando vedi un bambino sotto le bombe, pensi a tuo figlio. Ma anche al figlio di chiunque. Quel legame è universale.»

Per questo oggi Susan osserva con uno sguardo più ampio, che mescola il rigore del giornalismo con un senso profondo di responsabilità umana. Ogni storia, ogni dettaglio ha un peso. E raccontarli non è solo un dovere professionale, ma anche un atto di cura.

Inseguire storie, non scorciatoie

Oggi Susan lavora come freelance. Nonostante le difficoltà del panorama italiano, considera questa modalità un’opportunità. «Se un’inchiesta è buona, trova il suo spazio. Magari non dove vorresti, ma lo trova». La figura del freelance – ci tiene a dire – è rispettata all’estero e in crescita anche in Italia. Serve però autonomia, pazienza, visione. E, sempre, passione. «Non credo a chi dice: “nessuno mi ha pubblicato”. Se è un buon lavoro, da qualche parte uscirà.»

«Il mio consiglio a chi vuole fare questo mestiere?». Susan ci lascia tre consigli chiari. Primo: non scoraggiarsi. «Mi dicevano che non c’erano possibilità. Ma la mia motivazione era più forte». Secondo: mantenere il rigore delle fonti, anche nell’era digitale. «Non basta la prima risposta su Google o dall’intelligenza artificiale. Le fonti vanno sempre verificate». E infine, un invito molto concreto: intervistare dal vivo, allenarsi al contatto umano, al coraggio della domanda. «È come per un atleta. Prima ti alleni, poi puoi anche usare le scorciatoie. Ma l’allenamento serve».

In un tempo in cui il rumore di fondo sembra aver soffocato le storie vere, Susan ci ricorda che ascoltare – e raccontare – è ancora un atto di resistenza. E di cura.

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