Insegnare latino. Un confronto a distanza sul “modello natura”

La riposta del professor Jacopo Rubini al professore Andrea Balbo sui difetti del cosiddetto “modello natura” per l'insegnamento del latino. Ovvero umile apologia del metodo Ørberg - prima parte

[Il seguente contributo può essere letto anche in versione latina]

Introduzione

Nel suo libro Insegnare il latino. Sentieri di ricerca per una didattica ragionevole (UTET 2023), il professor Andrea Balbo affronta diffusamente il tema della didattica del latino, nonché la storia della stessa, percorrendo brevemente i secoli che vanno dal medioevo all’era contemporanea. [1]

Tra le sezioni del libro, che seguono quel primo excursus storico, si distingue in particolar modo il capitolo quarto, dal titolo “La lingua latina: i modelli d’insegnamento e le proposte didattiche” (pp. 73-102). Non abbiamo, dunque, potuto evitare di scorrere con interesse il paragrafo sesto di quel capitolo (pp. 87-91), riguardante il “modello natura” [2] ovvero il metodo Ørberg, in cui non solo si espongono natura e caratteristiche di questo metodo, ma si propone anche un breve elenco dei difetti dello stesso[3].

È nostra intenzione, in questo breve contributo, analizzare tali difetti ma, soprattutto, verificare se essi siano effettivamente da ritenersi delle criticità inerenti al metodo induttivo-contestuale in sé (espressione, questa, con cui le scienze glottodidattiche si riferiscono al cosiddetto “modello/metodo natura”), oppure se gli stessi non siano piuttosto da respingersi a vario titolo (ciò che, in effetti, crediamo di poter dimostrare). Ma, soprattutto, ci auguriamo che il professor Balbo possa accogliere benevolmente queste nostre considerazioni, come un contributo costruttivo teso a stimolare ulteriori approfondimenti sulla tematica, di importanza critica per il futuro dell’insegnamento del latino.

Sui difetti del “modello natura” indicati dal professor Balbo[4]

  1. Il carattere artificiale della vicenda narrata

Il primo difetto proposto da Balbo (pensiamo di non dover dire alcunché riguardo alle parole che lo precedono, con cui l’autore rimprovererebbe i fautori del metodo Ørberg di una specie di curioso “messianismo”: il che, ammesso che sia da considerarsi un fatto reale, non sarà certo un difetto del metodo, quanto piuttosto un vizio del singolo individuo) viene descritto in questo modo: un problema può essere costituito dal carattere artificiale della vicenda narrata, a cui si pone rimedio solamente nel secondo volume[5].

Innanzitutto, non ci è del tutto chiaro cosa queste parole vogliano esattamente significare. L’autore rimprovera effettivamente il carattere artificiale della sola vicenda narrata? Si lamenta dunque del fatto che gli eventi narrati nel libro “Familia Romana” non siano storicamente accaduti, ma piuttosto inventati e fantasiosi[6]? Giacché, se questa è l’accusa, sarà facile scagionare il metodo: infatti, anche gli studenti che usano il metodo grammaticale si imbattono in moltissimi autori, che raccontano eventi fantastici e inventati di sana pianta, insomma artificiali, come ad es. Plauto, Terenzio, Virgilio, Ovidio, Apuleio e molti altri. Non ci è chiaro in che modo questa caratteristica possa costituire un difetto metodologico, a meno che il professor Balbo non abbia piuttosto intenzione di rimproverare tali narrazioni, in quanto lontanissime dalle consuetudini di vita e dalle necessità quotidiane degli studenti di oggi. Il che, tuttavia, sarebbe automaticamente vero anche di tutta la letteratura antica; anzi, lo sarebbe ancora di più per gli autori antichi, che per i racconti orbergiani, i quali, sebbene ambientati nel II secolo d.C., trattano nondimeno tematiche sicuramente più vicine agli studenti contemporanei (come i rapporti familiari, i litigi, i giochi, la vita scolastica, le lamentele dei ragazzi e molte altre vicissitudini riguardanti la vita quotidiana di tutti noi), che non quelle degli autori cosiddetti classici (come ad es. le commedie plautine, le lunghe guerre combattute da Cesare, le orazioni di Cicerone, le vicissitudini e gli inganni politici raccontati da Sallustio e Tacito e così via: tutti elementi, che sono immensamente lontani dall’immaginazione dei giovani di ogni tempo).

Stando così le cose, sospettiamo piuttosto che l’autore rimproveri non tanto il carattere artificiale della narrazione, quanto l’epoca, in cui il testo del manuale è stato composto. Crediamo infatti che, secondo l’opinione dell’autore, siano da considerarsi artificiali quegli scritti, che non siano stati prodotti da autori classici o comunque antichi, ovvero posti fuori dalla tradizione scolastica delle lettere latine: Apuleio, dunque, sarà per così dire naturale, mentre non lo sarà il Pascoli (che pure in latino scrisse versi davvero incantevoli) e, con lui, nemmeno Ørberg e altri scrittori latini moderni o contemporanei, per quanto stilisticamente classicissimi.

Non è certo nostra intenzione diffonderci, in questo modesto contributo, sul carattere naturale o artificiale delle lingue. Poche parole saranno a tal proposito sufficienti: infatti, tutte le lingue cosiddette letterarie, ossia utilizzate per produrre ciò che comunemente chiamiamo letteratura (ovvero prodotti dalle finalità eminentemente artistiche), sono in qualche modo da considerarsi artificiali o, comunque, presentano dei caratteri comunemente percepiti come artificiali o artificiosi, frutto di una auto-normazione volontariamente e consapevolmente ricercata[7]. I romani non dialogavano certo tra sé nel modo in cui sono scritte le opere di Cesare, Cicerone, Livio, Tacito – per non parlare della poesia! Di più: lo stesso Cicerone non soleva favellare con amici e familiari, così come declamava le sue orazioni (tra l’altro modificate a posteriori ed edite per la lettura) o lo leggiamo nei dialoghi. Allo stesso modo, nemmeno Alessandro Manzoni parlava coi suoi interlocutori come nei gloriosi Promessi sposi, annoverato a ragione tra le fondamenta della lingua – quanto mai artificiale! – italiana[8].

La lingua latina, che oggi cerchiamo di trasmettere con enormi sforzi agli studenti, è del tutto letteraria, che equivale a dire “artificiale”: questa lingua, infatti, non comunica i contenuti dei nostri pensieri in maniera immediata (ossia priva di mediazioni artistico-letterarie), come accade invece nelle conversazioni quotidiane e popolari; ma, piuttosto, fa uso di eleganti artifici retorici, selezionando solo quelle parole ed espressioni, che abbiano dignità letteraria e si allontanino dal parlare comune e popolare; ed è il frutto di un processo storicamente attestato di selezione e stilizzazione continua della stessa. Ma crediamo che non sia necessario aggiungere altro, poiché a questo supposto difetto di artificialità risponde benissimo Piovan, citato dallo stesso Balbo: «la strada di estrapolare frasi d’autore (e quindi “naturali”, n.d.a.) dai testi è già stata percorsa, né si può dire abbia dato esiti significativi»[9].

Ciò è verissimo. Sappiamo infatti più che a sufficienza quale sia il grado di familiarità degli studenti con gli autori latini. E d’altro canto, chi sarebbe in grado di spiegarci in che modo studenti senza alcuna nozione di inglese potrebbero mai iniziare lo studio di questa lingua principiando da Shakespeare[10]? La natura – ci si perdoni l’impropria metafora biologica – procede per gradi, dal facile al difficile, dal basso all’alto – mai al contrario. Lo stesso Balbo, poi, afferma poco dopo che «bisogna infatti dire che un certo tasso di “creatività frasale” è presente in tutti i manuali, soprattutto nelle fasi iniziali». Ci sembra dunque che sia quasi il medesimo autore a respingere il difetto in questione: ciò che ci trova assolutamente d’accordo. Se infatti la lingua di Ørberg (che si ispira tra l’altro ai soli autori classici) sarà da considerarsi artificiale, lo stesso dovrà dirsi di quasi tutti gli autori romani, i quali, inoltre, non forniscono certo facilmente materiale adatto a quegli studenti, che muovono i primi passi nello studio delle lettere latine.

  1. Il latino usato come strumento di mediazione linguistica

Balbo prosegue poi affermando che i detrattori del metodo criticano «l’artificio di usare il latino come strumento di mediazione linguistica». Spesso, infatti, i “latinisti vivi” (come vengono talvolta chiamati i fautori del metodo) vengono accusati e non di rado ridicolizzati da altri docenti e studiosi, per il fatto di parlare tra di loro, ma soprattutto con i loro studenti (come esplicitamente previsto dal metodo), in latino e non sempre nel medesimo stile di Cesare o Cicerone. Il che è senza dubbio verissimo: nessuno di noi infatti (a parte, forse, pochissime incredibili eccezioni) è in grado di parlare – né mai forse lo sarà – come i più eleganti degli autori latini. Ma, d’altro canto, nemmeno ottimi docenti di lingua inglese parlano come Coleridge o Jane Austen, né quelli di tedesco come Goethe. Gli autori sono sommi e altissimi esempi di bello stile: esempi (come abbiamo detto poco sopra) del tutto letterari, che davvero in pochissimi, tra gli studiosi di letteratura, sono in grado di imitare. Chi mai potrà davvero parlare esattamente come Cicerone o come Shakespeare? Viene da sorridere al solo pensiero.

Perché, dunque, i fautori di questo metodo parlano in latino? Semplice: per quanto non siamo in grado di parlare come Cicerone, tuttavia, tentando di imitarlo il più possibile, possiamo parlare in un latino corretto e idiomatico, come i migliori maestri del metodo Ørberg dimostrano ovunque (anche in internet) ogni giorno. E tutto ciò avviene per una ragione eminentemente didattica, ossia affinché gli studenti, sottoposti a lungo e quotidianamente a un uso idiomatico e corretto della lingua latina, possano apprenderla ed eventualmente acquisirla in modo quanto più naturale ed efficace, anche attraverso l’ascolto.

È questa l’unica ragione, per cui il metodo induttivo-contestuale si basa sull’uso attivo della lingua. Come diciamo spesso a docenti e studenti, non abbiamo alcuna intenzione di allevare un esercito di piccoli Ciceroni; piuttosto, è nostra espressa volontà educare dei giovani in grado di leggere e capire gli autori in latino. E nient’altro. Ciò che, in realtà, sembra riconoscere apertamente lo stesso Balbo, quando riferisce nella stessa pagina queste parole del solito Piovan: «la competenza attiva che viene stimolata col metodo “natura” non è […] un obiettivo in sé, ma un mezzo per assimilare quelle strutture, forme e lessico che permettano davvero una lettura piena e autonoma dei testi classici» [11].

Detto ciò, ci sembra che sia dunque lo stesso Balbo, come accaduto per il precedente, a respingere anche questo secondo difetto.

  1. La continuità didattica

Nella trattazione del professor Balbo segue poi un terzo difetto, che non vediamo, tuttavia, come possa effettivamente essere ricondotto al metodo in sé. Infatti Balbo afferma: «Operativamente, una delle difficoltà più grandi riguarda la continuità didattica e la congruità del metodo con i programmi ministeriali: l’insegnamento effettuato con questo sistema funziona bene soltanto se nel passaggio fra biennio e triennio non vi è uno stacco troppo forte fra le impostazioni dei docenti e se si chiede agli allievi non di seguire in maniera pedissequa quanto stabilito dai programmi, ma di ragionare soprattutto per competenze interpretative del testo e non per conoscenze grammaticali astratte».

Si tratta di criticità senza dubbio reali (ma comunque da verificare), che ci sfugge, però, in che modo possano dipendere direttamente dal “modello natura”. Non potrà infatti essere certo responsabilità del metodo didattico (quale che esso sia), qualora vengano infelicemente interrotte la continuità didattica e l’affinità metodologica nel passaggio dal biennio al triennio; neppure sarà poi responsabilità del metodo didattico se il docente del triennio faccia uso di altra metodologia didattica (ciò che, oltretutto, non necessariamente dovrà negare – al contrario di quanto afferma Balbo – la buona riuscita del metodo: quanto meno, la nostra esperienza personale in ambito liceale afferma il contrario). Condizioni – queste – cui non possono che seguire molte e grandi difficoltà per gli studenti (soprattutto nel caso in cui si passi da metodo grammaticale a “modello natura”; molto meno, in verità, nel caso inverso): difficoltà di cui, tuttavia, non può certamente essere ritenuto responsabile il metodo.

È dovere infatti degli amministratori e dei dirigenti scolastici (delle persone, insomma, e non delle metodologie didattiche, le quali non sono che meri strumenti) provvedere, come apertamente stabilito dalla legge, a che gli studenti non incontrino difficoltà (o, al limite, quante meno possibili) nel passaggio dal biennio al triennio, attraverso la realizzazione della continuità didattica. E d’altro canto, tutti coloro che si occupano ogni giorno di scuola sanno molto bene, quanto la continuità didattica riguardi non solo le diverse metodologie didattiche, ma anche i singoli docenti (perfino coloro che utilizzino stessi metodi d’insegnamento) succedenti gli uni agli altri, al punto che agli studenti, gravati da molte e gravissime difficoltà, sembri talvolta non tanto di aver cambiato insegnante, quanto piuttosto di essere approdati in un’altra scuola. Purtuttavia, le criticità di cui sopra non possono in alcun modo essere imputate al “metodo natura” in sé.

Che dire, invece, dei programmi ministeriali? E cosa, inoltre, dell’affermazione, secondo la quale il metodo Ørberg potrebbe essere impiegato con successo solo a patto che «si chieda agli allievi non di seguire in maniera pedissequa quanto stabilito dai programmi, ma di ragionare soprattutto per competenze interpretative del testo e non per conoscenze grammaticali astratte» [12]? Anche in questo caso, poche parole basteranno.

Infatti gli stessi programmi ministeriali dichiarano che gli studenti dovranno «essere in grado di leggere, comprendere e tradurre (in quest’ordine) testi d’autore di vario genere e di diverso argomento» [13]; e in seguito si afferma anche che lo studente dovrà aver acquisito «le competenze linguistiche funzionali alla comprensione e alla traduzione (di nuovo in quest’ordine, come sopra) di testi d’autore, prevalentemente in prosa e di argomento mitologico, storico, narrativo» [14]. Dove, dunque, si ingiungerebbe agli studenti di «ragionare […] per competenze grammaticali astratte» fini a se stesse? E in che punto apparirebbe che gli studenti si allontanerebbero dai programmi ministeriali, laddove si preoccupassero maggiormente di comprendere e tradurre gli autori, piuttosto che di apprendere nozioni meramente grammaticali (affermazione, questa, che ci sembra essere addirittura contraria alla retta ragione)? Al contrario, è proprio a questo che servono, prima di tutto (specificazione “cronologica” fondamentale), le nozioni grammaticali, così come attestano esplicitamente i programmi ministeriali e concordano i linguisti: ossia a permettere agli studenti in primo luogo di comprendere gli autori latini leggendoli; in seconda battuta, di tradurli in italiano (e in un italiano corrente e aggiornato, che non sia quello del Pindemonte!) dopo averli compresi: qualsiasi altra finalità (pur presente) è esplicitamente subordinata alle precedenti.

Ecco, dunque, che ci troviamo a dover ribadire la nostra fastidiosa domanda: dove si trova, anche in questo caso, il difetto del metodo?

___________

[1] Il presente contributo rientra nell’annosa diatriba tra i sostenitori del metodo grammaticale (cosiddetto “tradizionale”) e quelli che sostengono una riforma dello stesso in senso induttivo-contestuale (ovvero “vivo” o “naturale”) per l’insegnamento delle lingue classiche. Da una parte, si sostiene che il latino non possa essere insegnato diversamente da come si è fatto negli ultimi 150 anni circa, ovvero tramite un’istruzione di tipo prettamente formale/grammaticale; dall’altra, si auspica invece un mutamento delle modalità di apprendimento della lingua, secondo principi naturali comuni all’insegnamento delle lingue moderne e “vive” (sulla base delle riflessioni proprie della cosiddetta Second Language Acquisition ovvero SLA) e tramite un utilizzo reale (scritto e parlato) della lingua latina. Nell’articolo, verranno considerate alcune delle più comuni criticità dei cosiddetti metodi naturali, evidenziate dal prof. Andrea Balbo nella sua opera glottodidattica.

[2] Il professor Balbo separa e distingue il cosiddetto “modello (o metodo) natura” dalla famiglia dei metodi naturali, tirando come linea di confine principale quella dell’utilizzo della stessa lingua latina come medium linguistico per insegnarla (cfr. infra), previsto appunto dal cosiddetto “modello natura”.

[3] Cfr. “Insegnare il latino. Sentieri di ricerca per una didattica ragionevole” (UTET 2023), pp. 86-87.

[4] Tutti i difetti analizzati si trovano nelle pagine 86-87 del manuale di Balbo e verranno da noi esaminati nello stesso ordine, in cui vengono elencati dall’autore.

[5] Si tratta del secondo volume del corso di studio “naturale”, “Lingua Latina per se illustrata”, composto da due volumi principali (esclusi gli eserciziari e i materiali di studio supplementare): il primo, “Familia Romana”, specificamente dedicato all’apprendimento della morfo-sintassi fondamentale della lingua latina; e il secondo, “Roma aeterna”, che introduce progressivamente alla letteratura: https://vivariumnovum.it/scolastica/latino.

[6]  Il libro “Familia Romana” narra le vicende quotidiane di una famiglia di Tuscolo (odierna Frascati) nel II sec. d.C..

[7] Chiarificatore, a tal proposito, il paragrafo dedicato alla lingua italiana della voce “La lingua letteraria” contenuta nella “Enciclopedia dell’italiano” e firmata da Vittorio Coletti (Treccani 2010: https://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-letteraria_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/).

[8] “In quanto soggetto a codificazione e normazione esplicita, lo standard (i.e. il modello linguistico italiano standardizzato, n.d.a.) è sempre un prodotto con un certo grado di artificialità. In natura non esistono varietà di lingua standard”, (G. Berruto, “Italiano standard”, in “Enciclopedia dell’italiano”, Treccani 2010: https://www.treccani.it/enciclopedia/italiano-standard_(Enciclopedia-dell’Italiano)/). Il latino letterario classico (costituito da un modello linguistico di letteratura alta, che spazia dal I secolo a.C al I secolo d.C. e comprende gli autori principali dell’istruzione scolastica latina) è un altro chiarissimo esempio di lingua standard.

[9] D. Piovan, “Sull’apprendimento delle lingue classiche. Qualche considerazione, una proposta, in G. Milanese, A ciascuno il suo latino: la didattica delle lingue classiche dalla scuola di base all’università”, Congedo, Galatina 2004, pp. 79-80.

[10] Cfr. ad es. Avellano: «tutti si lamentano del fatto che l’impegno profuso nello studio delle lettere classiche non dia frutto. Si chiedano dunque i dotti, se dei bambini di 10-12 anni siano in grado di leggere con spirito critico e analitico Shakespeare, se sono inglesi; Voltaire o Racine, se francesi; Goethe e Schiller, se tedeschi; o, se sono italiani, Dante: sebbene tutti loro siano nati all’interno dello stesso contesto linguistico di questi autori. Perché mai, dunque, ci precipitiamo nella più grande delle assurdità, credendo di poter pretendere che quegli stessi bambini, che non sono capaci di leggere i classici della loro lingua madre, siano invece in grado di leggere i più sommi di tutti i classici: Cesare, Cicerone od Orazio?» (Arcadius Avellanus, Praeco Latinus, vol. III, mens. Feb. 1897, n. 5, p. 1 – tradotto dal latino).

[11] D. Piovan, “Sull’apprendimento delle lingue classiche. Qualche considerazione, una proposta”, in G. Milanese, “A ciascuno il suo latino: la didattica delle lingue classiche dalla scuola di base all’università”, Congedo, Galatina 2004, pp. 79-80.

[12] Ci sembra, tra l’altro, che ragionare per competenze interpretative del testo sia un risultato molto più auspicabile e maturo, che non procedere per conoscenze grammaticali astratte. Così come, secondo la più recente pedagogia, le competenze – piuttosto che le conoscenze – sarebbero il vero obiettivo educativo a cui tendere.

[13] Indicazioni nazionali per i licei classici, INDIRE, p. 21.

[14] Indicazioni nazionali per i licei classici, INDIRE, p. 22.

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