
In molti Paesi, la situazione sociale delle donne non è come in Europa: vengono loro negati molteplici diritti, come quello all’istruzione, oppure vengono escluse da alcuni lavori, o gli viene persino negata la scelta del proprio sposo. Molte donne coraggiose hanno deciso di prendere la parola contro queste ingiustizie, e far sentire la propria voce al resto del mondo attraverso il giornalismo. Purtroppo, la distanza, la censura e molti altri fattori rendono difficile la diffusione dei lavori di queste giornaliste indipendenti; ed è qui che entra in gioco “Donne senza Frontiere”.
“Donne senza Frontiere” è un’iniziativa del giornale Avvenire che a partire dall’8 marzo, ogni 15 giorni, sta pubblicando dei reportage creati da reti di giornaliste indipendenti in varie parti del mondo. Per saperne di più, abbiamo intervistato la capo-redattrice di Avvenire, Antonella Mariani.
Quali sono gli obiettivi del progetto “Donne Senza Frontiere”?
«È un progetto che nasce da un gruppo di giornaliste, di cui faccio parte. È un’iniziativa analoga a quella del 2023, che aveva l’obiettivo di dare voce alle donne afghane oppresse dal regime talebano, mentre nel 2024 abbiamo dato voce a premi nobel donne per la pace, mediatrici e negoziatrici da tutto il mondo. Nel 2025, invece, abbiamo pensato di dare voce a giornaliste donne in tanti posti del modo, dove non hanno la nostra stessa libertà di parlare di certi argomenti femminili come disparità sociale, discriminazione sul lavoro, ma anche per l’accesso all’istruzione e alle cure; dunque, abbiamo individuato e contattato diverse reti indipendenti di giornaliste in tutto il mondo. Infine, abbiamo concordato anche un pagamento, in quanto “Donne senza Frontiere” ha come obiettivo anche quello di sostenere il giornalismo di genere indipendente».
Questo progetto è forse ispirato, magari un’evoluzione, della sua rubrica “La voce di chi non ha voce”?
«No, non direi che è direttamente collegato, ma è il nostro modo di lavorare, potremmo dire persino il nostro spirito, quindi c’è una certa affinità tra la rubrica e il progetto “Donne senza Frontiere”. In poche parole, è dare uno sguardo a queste situazioni meno conosciute, e dare uno spazio per parlare a chi non ne ha molta possibilità».
Ci può spiegare come il giornale è entrato in contatto con le reti di giornaliste con cui collaborate?
«Non è stato facile contattarle, poiché sono reti indipendenti, quindi non fanno parte di network ufficializzati; quindi, per trovarle, abbiamo dovuto mettere in campo tanti dei nostri corrispondenti sui vari continenti, abbiamo chiesto a esperti, ad attivisti conosciuti grazie ai nostri lavori precedenti, ad associazioni giornalistiche e abbiamo fatto ricerche approfondite su internet. Abbiamo dedicato tutto il mese di settembre alla ricerca, il mese di ottobre alla selezione e i mesi di novembre e di dicembre li abbiamo spesi a contattare le direttrici di queste reti; abbiamo fatto diverse videochiamate con loro, in modo da stabilire i temi su cui far lavorare queste giornaliste nei loro rispettivi Paesi, anche questo un passaggio complicato, dato che volevamo un reportage con argomenti differenti tra di loro».
Sono state 10 le reti ad aver aderito alla vostra iniziativa. Ci sono state altre reti con cui avete preso contatto, che però hanno rifiutato la vostra proposta?
«Abbiamo contatto molte reti indipendenti di giornaliste, e nessuna ha rifiutato: purtroppo, tra numerosi problemi tecnici e di connessione, solamente 10 delle reti contattate hanno potuto effettivamente partecipare».
Sperate che questo progetto possa portare cambiamenti positivi nelle vite, non solo di queste donne, ma anche in quelle future?
«Non pretendiamo che questo progetto, che ha uno scopo prettamente giornalistico, possa cambiare le cose, ma è anche vero che, come giornaliste, abbiamo tra i nostri obiettivi quello di far conoscere queste realtà: ad esempio, abbiamo avuto reportage che parlano dei matrimoni precoci in Afghanistan; abbiamo pubblicato altri reportage inerenti alla lotta delle attiviste ed ecologiste per la difesa del loro territorio nello stato della Oaxaca in Messico, entrambi temi molto forti. Come giornalisti, il nostro primo obiettivo è quello di far conoscere queste situazioni, e compiere un piccolo passo verso un mondo migliore di come lo abbiamo trovato».
Questo è il terzo anno di “Donne senza Frontiera”. Come sono state recepite dai vostri lettori le edizioni precedenti e quali sono le sue aspettative per la terza?
«I nostri lettori hanno apprezzato moltissimo l’iniziativa degli scorsi anni, il loro apprezzamento si è dimostrato soprattutto attraverso una raccolta fondi per finanziare e supportare delle scuole segrete in Afghanistan, dove dal settembre 2021 le ragazze sopra ai 12 anni non possono più andare a scuola. Attraverso queste scuole segrete, nascoste alle autorità, le ragazze possono permettersi un’istruzione. Per quest’anno, non abbiamo fatto una raccolta fondi, poiché il giornale ne aveva già avviato un’altra, ma ciò che mi aspetto da questa edizione è un grande successo e che possa diffondere le storie e supportare le azioni di queste coraggiose giornaliste».
Mariani, per concludere, dalla sua posizione in “Avvenire”, quale consiglio può dare ai lettori ed aspiranti giornalisti di Open Prisma?
«Posso dare solo 2 consigli: parlate di argomenti di cui si parla poco, e cercate sempre di perseguire la verità. Come giornalisti, il nostro dovere è quello riportare i fatti, e secondo me dobbiamo anche fare luce e far conoscere quelle vicende di cui si parla poco».