Sembrava un laboratorio, e invece è stato un atto politico. E poetico

È possibile generare comunità anche nei territori difficili? Sì, basta dissodarli, perché possano esprimere le loro risorse. Così, un laboratorio diventa l'inizio di una storia

Cosa significa davvero rigenerare un territorio? Forse vuol dire cominciare da ciò che spesso viene ignorato: lo sguardo, l’ascolto, il tempo. E forse significa anche credere che le periferie – geografiche, sociali, esistenziali – siano in realtà laboratori vivissimi di possibilità.

Siamo arrivati a Napoli come formatori legati all’associazione di promozione sociale Tutti e Nessuno, tutti legati alla facoltà di Pedagogia Sociale dell’Università Pontificia Salesiana, portando con noi un bagaglio fatto di esperienze, pratiche e domande aperte. Da anni lavoriamo nell’Alta Val d’Elsa, in Toscana, dove abbiamo dato vita a un percorso di animazione territoriale e sviluppo di comunità intitolato “Se dico minori…”. Un progetto cresciuto nel tempo, grazie a un forte partenariato con le amministrazioni locali, i Salesiani di don Bosco, le realtà giovanili, le scuole e, soprattutto, con l’intera comunità locale, che abbiamo accompagnato a riconoscersi come soggetto attivo nelle politiche sociali.

A Ponticelli, quartiere della Napoli più autentica e ferita, il 13 giugno si è tenuto il laboratorio “Generatori di valore comunitario: dissodare risorse per animare territori”, una proposta inserita nella prima edizione del Piccolo Festival della Comunità Educante, promosso da Maestri di Strada. Un titolo che già parla chiaro: dissodare risorse, ovvero rimettere in moto energie sopite, talenti invisibili, desideri lasciati ai margini. Al laboratorio hanno partecipato educatori, operatori sociali, studenti, docenti: persone provenienti da varie zone di Napoli, unite dalla voglia di immaginare qualcosa di nuovo e concreto per i propri quartieri.

L’obiettivo era ambizioso e necessario: riaccendere lo slancio, restituire entusiasmo, nutrire il desiderio di cambiamento per quei luoghi spesso raccontati solo attraverso il filtro del degrado. E invece, il laboratorio è diventato un’esperienza intensa di progettazione partecipata e mappatura urbana: non per sognare in astratto, ma per pensare e fare comunità dal basso.

Una palestra di comunità

Dopo un primo momento di conoscenza e condivisione dei propri saperi – ma anche dei propri sogni – i partecipanti hanno simulato una mappatura del territorio, individuando presidi educativi e culturali che possono fungere da stakeholder strategici: da FOQUS Napoli al lavoro straordinario di don Antonio Loffredo nel Rione Sanità.

Poi, il cuore pulsante del laboratorio: la progettazione partecipata di un’azione di sviluppo comunitario da realizzare entro un anno. Due gruppi, due idee, un’unica visione condivisa: restituire valore sociale ai territori attraverso legami, prossimità, alleanze.

Le domande finali, condivise a cerchio, hanno aperto ancora più spazio all’immaginazione: Cosa ci ha colpiti? Cosa possiamo ancora fare? Dove vogliamo tornare per seminare ciò che abbiamo imparato? Come dice Emilio Casalini: «Tutto ciò che non esiste, si può fare».

Dissodare le risorse invisibili

Le risorse emerse non sono state solo teoriche o professionali. Sono state relazionali, umane, sottili. Il laboratorio ha ridato valore a ciò che spesso si dà per scontato: la cura, il tempo, la visione. C’è un sapere che non si apprende sui banchi ma nelle strade, nelle piazze, nei saluti quotidiani tra vicini: un sapere che fa da collante, che costruisce quel “welfare delle chiacchierate” in grado di tenere insieme la memoria dei territori con la loro voglia di futuro.

L’atmosfera vissuta è stata quella di chi si mette in gioco davvero: con la mente, ma anche col cuore. È emersa forte la consapevolezza che i territori non si animano da soli: le politiche sociali, da sole, non bastano. Servono esperienze come questa, capaci di generare coinvolgimento, desiderio, fiducia.
I luoghi non sono solo contenitori di vite. I luoghi respirano, dicono, chiedono. Anche quelli più dimenticati. Anche Ponticelli, che per due giorni si è trasformato in spazio di riflessione collettiva, contaminazione positiva, visione.

L’impegno a continuare

Il laboratorio si è concluso con un invito chiaro: non lasciar morire i progetti nati lì, ma coltivarli, realizzarli, portarli avanti. Noi formatori, ma adesso anche alleati e amici, ci siamo impegnati a tornare, i partecipanti a restare con lo sguardo acceso.
Perché esperienze del genere sono replicabili ovunque. Perché, come ha detto una partecipante, Laura: «Da oggi tornerò anch’io nei miei rioni, quelli più rassegnati, a dire che la speranza di cambiare le cose c’è, e deve ripartire da noi».

In un contesto spesso affamato di senso, il laboratorio è stato molto più di un momento formativo. È stato un atto politico e poetico insieme. Un seme. Un generatore, appunto, di valore comunitario.

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